Fulvio Bernardini

Un grande, grandissimo calciatore e poi un tecnico
dalla sagacia tattica straordinaria,
con le "perle" degli scudetti della Fiorentina e del Bologna.


Fulvio Bernardini

introduzione

► Se Arrigo Sacchi ha avuto un "contrario", nella vetrina del pallone italiano, questi è stato Fulvio Bernardini. Un grande giocatore, anzi, grandissimo, tanto per cominciare, a smentita del luogo comune che vuole i successi in panchina inversamente proporzionali a quelli in maglietta e mutande.
Esordiente praticamente bambino nella Lazio (a quattordici anni, nel gennaio 1920 contro l'Esquilia) come insuperabile portiere, Bernardini venne costretto dalla famiglia, dopo gli esiti di un calcio alla testa, a dirottarsi in un ruolo meno rischioso: fu implacabile centravanti nell'Inter, mentre in Nazionale veniva interpretato come centro-mediano del Metodo, gran direttore d'orchestra dal sinistro di velluto. 

IL DISSIDIO CON POZZO
Nella Roma, dove giocò a lungo chiudendovi la carriera, la sua classe di leader del gioco fu tra i capitoli più esaltanti della leggenda del Testaccio. Un grande campione, insomma, dalla milizia azzurra insufficiente rispetto ai meriti, a causa, si è sempre detto, dell'eccessiva bravura rispetto agli equilibri tecnici della squadra.
Vittorio Pozzo negò: «Con l'allargamento della posizione dei terzini Rosetta e Caligaris, un grande spazio vuoto veniva a presentarsi al centro, nel caso dì secchi contrattacchi dell'avversario. Fu così che giunsi alla determinazione di cercare un centromediano che non fosse proclive a correre grandi avventure in avanti e che, nello stesso tempo, per non rinunciare ai servizi agli attaccanti, disponesse di lunghi traversoni, specialmente alle ali, dotati di grande potenza. Per questo motivo io spinsi avanti, fino a consumazione dì ognuno, prima Ferraris  poi Monti, poi Andreolo: tre individui che avevano le caratteristiche che, confacendosi al caso, io desideravo. Fu per questo stesso motivo che io, ogni volta che potei, preferii uno dei tre a Bernardini, che pure era un brillante tecnico. Io la spiegai, la cosa, a Bernardini, pur rendendo omaggio alle sue qualità tecniche personali. Fu di lì che qualcuno fece nascere la storiella in base alla quale io avrei detto a Fulvio che lo lasciavo fuori perché giuocava troppo bene per la squadra. Io ero semplicemente disposto a qualunque rinuncia, pur di ottenere il giuoco dì squadra. Non volevo che nessuno brillasse, volevo che la squadra funzionasse, rendesse, avesse efficacia».

Bernardini la raccontò diversamente, ambientandola nella vigilia di Italia-Ungheria, a Torino nel 1931, la partita della zona Cesarini: «La stanza del commissario della Nazionale era adiacente alla mia e ve lo trovai con il viso atteggiato ad una espressione preoccupata come di uomo combattuto e preoccupato da qualche affanno. Mi parlò a lungo, Pozzo, con lenta cadenza senza guardarmi negli occhi: vede Bernardini, lei gioca attualmente in modo superiore; in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale; questa sua particolare situazione porta la squadra dove lei opera ali 'assurdo di non avere facili collegamenti perché gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione. Dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tutti gli altri? È un problema difficile come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei: come si regolerebbe al mio posto?».

LA POLITICA DEI "PIEDI BUONI"
Sia come sia, dall'esperienza di grande campione Bernardini trasse la convinzione, poi mai ripudiata, che contassero nel calcio più d'ogni altra componente le qualità individuali. Ciò che un giorno avrebbe mirabilmente sintetizzato con l'espressione "piedi buoni", ancora oggi in voga. Dunque, quando il dottor Bernardini (era laureato in Scienze politiche) divenne allenatore, oltre che brillante giornalista, rimase fedele a quell'idea originaria: che il grande calcio lo facessero prima i grandi giocatori e solo in second'ordine gli schemi.
Ecco il secondo spunto anti-sacchiano. Eppure, proprio grazie al valore aggiunto delle sue originali strategie riuscì a stabilire il primato che gli vale un posto nella storia del calcio: vincere due volte lo scudetto lontano dalle rotte degli squadroni metropolitani. Nel 1956 a Firenze, nel 1964 a Bologna.
In entrambi i casi, Fuffo (suo soprannome romano) costruì due squadroni a immagine e somiglianza del suo ideale di calcio. Votate a un gioco arioso e offensivo, ma ben protette a costo di sacrificare alla praticità anche qualche principio teorico.
E in questo la disparità con Sacchi cede il passo al rispetto di un principio sempre valido: le grandi squadre partono sempre da una grande difesa. La Fiorentina aveva la linea maginot: Sarti; Magnini, Cervato; Chiappella, Rosetta, Segato. Il disegno tattico teorico era il Sistema, sposato da Bernardini come ideale per il nostro calcio fin dai primi anni Quaranta. Però con un correttivo in linea con gli sviluppi tattici già all'epoca affermatisi, soprattutto grazie allo scudetto interista del 1953. Il "libero", in altre parole, non c'era, ma era previsto in corso di gioco un meccanismo per potenziare la protezione davanti al portiere: nelle azioni di attacco avversario, il mediano destro Chiappella retrocedeva al posto di Magnini, che si accentrava a stopper, consentendo a Rosetta di stazionargli alle spalle in veste di "spazzino" d'area; nelle azioni di rilancio, si ricomponeva lo schieramento sistemista, con Chiappella e Segato vertici "bassi" del quadrilatero di centrocampo.

UN UOMO INTRANSIGENTE
Allo stesso modo, in attacco c'era l'ala tornante, impersonata da Maurilio Prini, che Bernardini assicurava di aver dovuto inserire in squadra per un'indisponibilità dell'ala pura Bizzarri, salvo poi rendersi conto di quanto fosse utile al gioco un esterno che retrocedeva a dar manforte al centrocampo, consentendo all'interno Montuori di assecondare il proprio istinto per la rete avversaria in appoggio al centravanti di sfondamento "Pecos Bill" Virgili. Un meccanismo perfettamente oliato nelle manovre difensive come in quelle d'attacco, che tuttavia Bernardini attribuiva schivo alla qualità dei giocatori. Così come anni dopo del Bologna capace di giocare "come solo in Paradiso" (espressione da lui coniata dopo un 7-1 al Modena nel 1962-63) avrebbe elogiato le splendide qualità dei suoi campioni, preferendo mantenere nell'ombra le proprie mosse di stratega. Nello spareggio del giugno 1964 all'Olimpico, batté il Mago Herrera sostituendo la punta Pascutti col terzino Capra, deputato a frenare gli estri del fantasista Corso. Dopo, a vittoria ottenuta, si sarebbe schermito adducendo a motivo le non perfette condizioni dell'ala di riserva Renna...  I fautori del Catenaccio, come Gianni Brera, digr-ignavano i denti per quel vessillifero del calcio offensivo abile a predicare male (secondo loro), per poi razzolare benissimo.
Fulvio Bernardini era nato a Roma nel gennaio 1906 da famiglia agiata e l'indole aristocratica e colta avrebbe sempre ispirato i suoi comportamenti. Era umorista raffinato, capace di fulminare ogni questione con una battuta paradossale, a costo di passare per frivolo qualunquista. Ma non sapeva transigere sulle questioni di principio, innanzitutto con se stesso. Giocava gratis, nella Lazio in cui furoreggiava, ma un giorno scoprì che i suoi compagni prendevano soldi sottobanco, in linea col dilettantismo di facciata dell'epoca, e non la mandò giù. Se ne andò a casa e la Lazio per interromperne lo "sciopero" fu costretta a cederlo all'Inter, dove gli venne riconosciuto un lauto ingaggio. E quando già era una bandiera della Roma, fu capace di bloccare l'ingresso in campo, in una partita a Venezia, perché il presidente si era rimangiato la parola di un certo premio per tre vittorie consecutive. Il presidente dovette arrendersi per evitare lo scandalo di un forfait senza precedenti e la partita cominciò in grave ritardo "per motivi tecnici".

PASTICCIO A VICENZA
Non correva buon sangue, tra lui e Vittorio Pozzo, ed ebbe sempre la convinzione che la sua così risicata militanza azzurra fosse dovuta al potere degli squadroni del Nord. In un'altra occasione fu il portabandiera del Centro-Sud reietto: dopo la liberazione di Roma da parte delle truppe alleate, fu nominato commissario straordinario della Federazione, ma dopo pochi mesi il suo rigore morale, incompatibile con giochi e congiure di corridoio, lo spinse ad abbandonare. In qualche modo, la superiorità culturale e il senso forte dei principi lo schierarono fatalmente dalla parte dei più deboli. Divenne capo-rubrica al "Corriere dello Sport" nel periodo bellico, esibendo una prosa arguta e lucida, ma esprimere le proprie idee non gli bastava: doveva farle vivere sul campo.
Così divenne allenatore, ma la partenza, con la "sua" Roma, fu traumatica. Era il 1949. Il presidente, il senatore Pier Carlo Restagno, gli affidò una delle ricorrenti ricostruzioni della squadra, nell'ennesimo periodo tumultuoso. Chiese tre anni di tempo a un pubblico impaziente, ma la sua applicazione del Sistema puro fece franare la squadra. Venne "sfiduciato" in primavera, resistette grazie alla solidarietà dei giocatori, ma il 10 maggio 1950, a tre giornate dalla fine, in pieno rischio retrocessione, fu costretto a dimettersi. La squadra, pilotata da Luigi Brunella, si salvò per il rotto della cuffia ma "Fuffo" non si perdonò e decise di ripartire da zero.
Scese in Serie C, a Reggio Calabria, poi andò a Vicenza, in B, esercitando l'umile tirocinio di chi rifiuta sconti al proprio orgoglio ferito. Di quelle esperienze avrebbe fatto tesoro, ricavandone altresì una ancor più accentuata tendenza a defilarsi dai successi della squadra, a costo di passare, come in effetti accadde, per qualunquista.
Una prima stagione di ambientamento, poi la grande svolta della carriera. Stagione 1952-53. Il Vicenza lotta per la promozione in A ed è a ridosso delle prime, quando la Fiorentina contatta Bernardini. Un fatto che oggi sarebbe impensabile e che pure allora destò più d'una polemica: la Fiorentina, patita il 18 gennaio 1953 l'ennesima sconfitta a Como, decideva di cacciare l'allenatore Renzo Magli e sic et simpliciter sceglieva come successore il tecnico del Vicenza. Bernardini accettò, chiese al suo club l'autorizzazione a rescindere il contratto, non l'ottenne e partì comunque per Firenze. Il 25 gennaio tutto era fatto: Bernardini debuttava sulla panchina della Fiorentina a Ferrara, 1-1 con la Spal, mentre il Vicenza, pur sotto shock per la crisi tecnica improvvisa, guidato da Menti batteva il Genoa, una "grande", per 2-1.

SBOCCIA LA VIOLA
La frattura col club veneto si componeva rapidamente e per il Dottore si avviava un periodo esaltante. Come già a Roma, Bernardini stilava un programma triennale, che questa volta avrebbe rispettato con puntualità.
La prima stagione interamente sua conferma la sua predilezione per i piedi buoni. Bernardini chiede e ottiene dal presidente Befani l'ingaggio di Gren, il "Professore" considerato a 33 anni ormai troppo lento per il Milan. La squadra gira e termina al quarto posto, nonostante la sterilità dell'attacco, soprattutto per il fallimento dello sfortunato attaccante uruguaiano Vidal (campione del mondo). A fine campionato, il Dottore va in Svizzera a "studiare" i Mondiali. Vede il Brasile e si annota un nome soltanto: Julinho. «Un'ala» scrive magistralmente «può arrivare fino a Julinho. Non oltre». Il progetto di un gioco d'attacco più aperto comincia a prender corpo nella sua mente.
Il campionato successivo l'ulteriore salto di qualità non arriva, specie per i rinnovati problemi offensivi e allora mette da parte Gren, nonostante sia costantemente tra i migliori, perché coltiva l'idea di una Fiorentina diversa. Gren se la prende, non si sente lento né superato (in effetti giocherà ancora per molti anni e sarà una stella dei Mondiali 1958) e sbatte la porta. I fatti daranno ragione a Bernardini.

L'INTUIZIONE DEL PRETE
Nell'estate del 1955 il tecnico osa: chiede a Befani Julinho promettendogli lo scudetto. Sembra una spacconata, che tuttavia diventa realistica quando si scopre che lo sconosciuto argentino Montuori, pescato nell'Universitad Catolica di Santiago del Cile su segnalazione di un prete italiano, è un fenomeno. Quattro stagioni in viola: lo scudetto, il primo della storia, e poi due secondi posti, conditi dal capolavoro della conferma di Julinho, tornato in Brasile per saudade dopo le prime due stagioni e convinto personalmente dal tecnico a tornare.
Il pubblico e la società però si erano abituati bene e le due piazze d'onore furono vissute come un fallimento. Bernardini non gradì il clima creatosi attorno a lui e nel 1958 prese la porta.
Trovò la Lazio, uno dei capitoli più sfortunati. Mancavano i mezzi per fare una grande squadra e gli stranieri, al contrario del periodo viola, furono la palla al piede. Il campione brasiliano Tozzi dovette essere allontanato per indisciplina e nel 1960, dopo due tornei dignitosi, il temerario tentativo di costruire una squadra giovane (Paolo Ferrario, futuro "Ciapina", era centravanti titolare ad appena diciassette anni) naufragò perché lo straniero "misterioso", il centrocampista uruguaiano Homero Guaglianone, si rivelò una bufala colossale.
Bernardini fu esonerato il 30 novembre mentre la società era scossa da continue bufere. Il Dottore se ne andò con amarezza, Roma non gli portava fortuna. Dopo di lui, il diluvio: la società venne commissariata in febbraio e poi, sotto la guida di Carver, retrocesse in B.
Bernardini era a quel punto l'uomo giusto per il Bologna. Così consigliarono gli amici a Renato Dall'Ara, il presidente che da oltre trent'anni guidava il club rossoblu, avendo però smarrito nel dopoguerra le vie della gloria frequentate negli anni Trenta. Bernardini non fece buona impressione e continuò sempre a legare poco con il presidente ruspante, così lontano dai suoi livelli culturali.
Dall'Ara aveva amato l'uomo di mondo Viani e ammirava Rocco, miracoliere del Padova dei panzer, fino a invocarlo ad alta voce, quando le manie spettacolari del Dottore incespicavano sulle bassezze tattiche della vita terrena.
Non si frequentavano, troppo distanti com'erano («Se vuole un tattico, prenda Rocco... Se vuole un servo che vada a giocare a briscola nel suo ufficio, prenda una delle sue segretarie» replicava gelido il Dottore alle rimostranze del presidente), ma compresero presto di poter formare una redditizia coppia di opposti. Bernardini inseguiva un calcio di alto livello, capace di risuscitare gli entusiasmi di un pubblico da troppo tempo in astinenza, Dall'Ara aveva i soldi e l'istintiva intelligenza gestionale per consentirgli di lavorare al suo progetto. Come già a Firenze, il terzo anno il programma venne rispettato con lo scudetto.

FINE CRUDELE
Già l'anno prima il Bologna aveva giocato come in Paradiso, bastò l'arrivo del portiere William Negri dal Mantova dei miracoli per far decollare il capolavoro. Negri in porta, Furlanis e Pavinato terzini, Tumburus e Janich centrali, il primo di preferenza stopper, il secondo libero, ma intercambiabili. E poi, Fogli e Bulgarelli in regia, Haller a inventa re, il raffinato Perani all'ala destra e due bomber come si deve, l'irruento e grezzo Nielsen e l'ala Pascutti.
La vicenda del doping logorò i nervi all'ambiente, Bernardini rinsaldò il legame col presidente e lo pianse di lacrime sincere quando il cuore di Dall'Ara cedette, durante una lite con Moratti in Lega, quattro giorni prima dello spareggio con l'Inter all'Olimpico. Qui Bernardini appose la firma beffarda, con Capra finta ala a chiudere Corso. Il Bologna vinse, ma anche in questo caso il rapporto non durò molto oltre il triangolo tricolore.
Una dispettosa monetina escluse il Bologna al primo turno dalla Coppa dei Campioni, i big della squadra riposarono sugli allori e il sesto posto del 1965 fu un fiasco. Bernardini se ne andò a Bogliasco, sulla riviera ligure. Prese in cura la Sampdoria, la riportò subito in A e gettò le basi della rifondazione societaria. Infine chiuse a Brescia, ormai emarginato dal grande calcio, nel quale peraltro continuava a interloquire scrivendo commenti mai banali sulla stampa nazionale.
Poi, nel 1974, gli venne concessa la Nazionale, il sogno della sua vita, quando ormai era vecchio e non ci sperava più. Capì subito che se l'avevano data a un "ribelle" come lui, inviso alle grandi correnti del Palazzo del calcio, la patata doveva essere davvero bollente. Il fiasco tragicomico di Stoccarda 1974 aveva chiuso un'epoca del calcio italiano. Doveva mettere in pensione Mazzola e Rivera e gettare le fondamenta di una ricostruzione incerta, tra valori mediocri e improbabili spinte a un atletismo "olandese". L'età e il carisma non gli risparmiarono insulti e contestazioni per la modestia dei risultati.
Se ne andò tra le lacrime, nel 1977, dopo aver allevato Bearzot e Vicini. Nessuno lo rimpianse, ma i giovani che aveva lanciato vinsero pochi anni dopo, sotto la guida di Bearzot, il titolo mondiale.
Al momento dell'addio alla Nazionale, la proverbiale eloquenza già cominciava a cedere sotto i colpi di un male raro e incurabile, il morbo di Charcot, che a un certo punto, beffa crudele, gli tolse definitivamente la parola.

L'agonia non fu breve, gli prese la vita a poco a poco. Fulvio Bernardini morì il 14 gennaio del 1984, tra molti pianti di coccodrillo di critici che non ne avevano avuto pietà neppure di fronte alla crudeltà della natura. 




Tre ricordi di tre giornalisti per ricordare ciò che è stato Fulvio Bernardini:
un grande giocatore, un grande allenatore, e soprattutto un grande uomo.

Come diventò «Fuffo nostro», perché lo chiamavano «il dottore»,
sulle due sponde romane e l'intermezzo nell'Inter,
una parte in un film, il tennis col Duce,
piedibuoni e cervello nel calcio dove a quattordici anni nella Lazio...

di Elio Domeniconi

Quando qualche cronistello di primo pelo alzava troppo la cresta, lo metteva a tacere dicendogli: «Io sono Fulvio Bernardini, e tu chi sei?». Il tapino era subito costretto a cucirsi la bocca e ad ascoltare l'oracolo.

IL SANTONE
Alla maniera di Re Sole, poteva dire benissimo: «Il calcio sono io». Ne aveva tutti i titoli, nessuno ha mai vantato e sicuramente nessuno vanterà mai un simile curriculum.
Come calciatore era arrivato alla Serie A, alla Nazionale, aveva partecipato alle Olimpiadi e avrebbe potuto benissimo diventare campione del mondo se nel 1934 Vittorio Pozzo non l'avesse tolto dal Club Italia perché... giocava troppo bene. Come allenatore ha vinto due scudetti, e mica in metropoli, ma in piccole città come Firenze e Bologna, una Coppa Italia e un Seminatore d'oro.
Poteva darsi delle arie anche in tribuna stampa perché era giornalista professionista come i suoi critici più agguerriti (era arrivato alla carica di caposervizio al "Corriere dello sport").
Quanto alla cultura, pochi potevano stare alla pari di lui: aveva il diploma (ragioniere) e la laurea (in scienze economiche e commerciali). Non era "il mister", era "il dottore".

PORTIERE
È stato paragonato a Falcao perché, già mezzo secolo fa, era stato un giocatore universale. Il cervello e i piedi buoni gli permettevano di giocare in qualsiasi ruolo.
Aveva cominciato come portiere, si era trasformato mediano metodista, che allora era il ruolo più importante.  La  soddisfazione più grande, la carica di ct della Nazionale, l'ha avuta da vecchio quando ormai si considerava in pensione. Però era stato un ragazzo-prodigio. A 14 anni era già portiere della Lazio in Serie A. Aveva cominciato nell'Exquilia, la squadretta dell'oratorio del quartiere Monti, ve l'aveva portato il fratello maggiore Vittorio, appassionato di calcio pure lui. Cambiò ruolo nel 21 dopo un incontro con la Fortitudo. Ha raccontato Mario Pennacchia nella storia della Lazio: «Bernardini para tutto sino ad esasperare gli stessi avversari. Nel fango la partita è una battaglia, una serie indistinguibile di violenti corpo a corpo. Quel ragazzino in porta poi è un fenomeno: vola, si tuffa, respinge in tutti i modi, perfino con i piedi. E ai rossoblu, che pure vincono, scappa la pazienza. In una mischia Fulvietto si butta a pesce, agguanta la palla, ma viene duramente colpito alla testa dall'infuriato Montemezzi. Sulle tribune si accapigliano, il gioco viene sospeso. II povero ragazzo, privo di sensi, viene sollevato e portato fuori dal campo. Per rianimarlo, non si sa come, viene pescata una bottiglia di cognac, nella gola dell'inanimato Bernardini ne viene versato un bicchiere». A quei tempi il cognac sostituiva la spugna.

LA FAMIGLIA
Proprio perché era un portiere-kamikaze, le sorelle quando lo videro tornare a casa con la testa rotta lo implorarono perché se proprio voleva giocare al calcio cambiasse almeno ruolo. In casa, Fulvio era molto coccolato perché era l'ultimo della nidiata: papà Augusto e mamma Clorinda l'avevano avuto dopo Maria, Vittorio, Jolanda e Giulia. E per fargli guadagnare un anno, anche se era nato il 28 dicembre del 1905, aspettarono a registrarlo il 1 gennaio del 1906.
Allora si usava. Per capire la popolarità di Bernardini nella sua città basterà, ricordare le parole di un suo biografo, Vittorio Finizio, che una mattina si svegliò alle sei per riuscire a strappargli l'autografo (Fulvio infatti detestava il divismo e dopo le partite usciva dalla porta di servizio per evitare i fans che si presentavano con foglio e matita): «Bernardini - ha scritto Finizio - ebbe unico e solo il distintivo di essere chiamato dalla folla "Fulvio nostro". Non ci fu un Attilio nostro e neppure un Guido nostro: ma solo lui, Fulvio, fu decorato dalla medaglia dell'aggettivo possessivo dalla folla  romana.  Lo  chiamavano Bernardini i soli ufficiali dello stato civile, più qualche serio commendatore che vagamente veniva interessandosi di pallone. Ma per la folla, per i tifosi. Bernardini era Fulvio nostro». E, in romanesco, Fuffo nostro.

IL GIURAMENTO
Per impedirgli di lasciare la Lazio l'avevano costretto a giurare sul letto di morte di suo padre, che era laziale, che mai avrebbe lasciato la società del suo cuore. Se ne andò quando scopri che solo lui giocava per la gloria, tutti gli altri erano pagati. L'Inter per averlo, nel 1926, gli fece un contratto di tremila lire al mese
e 50 mila lire ad ogni rinnovo stagionale del cartellino. Ma si era trasferito a Milano anche per poter continuare gli studi alla Bocconi, l'università più famosa per chi fa economia e commercio (però poi si laureò nella capitale, quando ormai giocava nella Roma, all'università di Fontanella Borghese.
Aveva 28 anni). Le sorelle sognavano per lui un sicuro impiego in banca, e per qualche tempo dopo il diploma, si era interessato di conduzione aziendale. Non era nato per restare dietro a una scrivania.

IL CINEMA
Pochi forse sanno che Bernardini ha fatto anche l'attore. Prese parte al primo film sportivo: «Undici uomini e un pallone», regia di Angelo Musco. Se avesse voluto, avrebbe potuto diventare anche onorevole. Aveva infatti sposato Ines Giannini (e dall'unione felice sono nate due figlie: Clorinda e Mariolina). La signora Ines, che l'ha assistito amorevolmente sino all'ultimo, è la figlia di Guglielmo Giannini, il fondatore dell'«Uomo qualunque», un movimento che nel primo dopoguerra ebbe molto seguito e portò diversi suoi seguaci in Parlamento.
Ma Bernardini preferì rimanere fuori dalla politica. Ricordava però volentieri un suo scontro con il Duce. Accadde il 2 gennaio del 1935, a Piazza Venezia. Il traffico era intasato e tutto dipendeva da una grossa Astura color blu che procedeva piuttosto lentamente. Anche se in città era proibito, Bernardini cominciò a suonare il clackson della sua Augusta e poi, in via Cesare Battisti, tentò il sorpasso. L'Astura non gli diede strada e ci fu un leggero contatto tra le due macchine.
Poco dopo, l'allora centromediano della Roma fu raggiunto a casa dalla polizia.
Seppe così che quella Astura aveva a bordo Benito Mussolini che si stava recando alla Stazione Termini per ricevere il premier francese Pierre Lavai. Gli venne ritirata la patente, che riebbe alcuni mesi dopo solo per l'intervento di un compagno di squadra, Eraldo Monzeglio. Monzeglio era amico fraterno dei figli di Mussolini, Bruno e Vittorio, che però tifavano per la Lazio, quindi il suo compito quella volta non fu facile. Per riavere la patente Bernardini fu costretto a farsi battere a tennis dal Duce a Villa Torlonia. Fulvio era un campione anche con la racchetta, ma quel giorno dovette farsi battere.

LA NAZIONALE
Il suo scopritore era stato Guido Baccani, e fu lui a suggerirlo ad Augusto Rangone per la Nazionale. L'esordio il 22 marzo 1925 a Torino contro la Francia (7-0), a Bernardini giocò solo 26 partite in Nazionale perché poi arrivò Vittorio Pozzo, che, come spiegò Paola Bolognani a Mike Bongiorno quando andò a vincere i 5 milioni a «Lascia o raddoppia?» rispondendo sul calcio, «Pozzo amava più i combattenti generosi alla Ferraris IV che i maestri della classe e della tecnica».
Nel suo volume «Dieci anni con la Nazionale», Bernardini ha raccontato perché Pozzo gli tolse la maglia azzurra, alla vigilia dei Campionati del mondo 1934: «... Sin dai primi contatti ebbi la netta sensazione che Pozzo non gradisse molto il mio modo di giocare. Per la posizione di centro della mediana lui era alla ricerca di un giocatore inesauribile: ricordo che aveva molta nostalgia di Luigi Burlando. Non fece fatica a trovare il soggetto che gli occorreva: Ferraris IV rispose in pieno ai suoi desideri...».
Ricordò anche il discorso che Pozzo gli fece nel 1931 a Torino alla vigilia di Italia-Ungheria: «La stanza del c.n. era adiacente alla mia e ve lo trovai con il viso atteggiato ad una espressione preoccupata come di uomo combattuto e preoccupato da qualche affanno. Mi parlò a lungo, Pozzo, con lenta cadenza senza guardarmi negli occhi: vede Bernardini, lei gioca attualmente in modo superiore; in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale; questa sua particolare situazione porta la squadra dove lei opera all'assurdo di non avere facili collegamenti perché gli altri possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione, dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tuti gli altri? È un problema difficile come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei: come si regolerebbe al mio posto?». Fecero pace a Cuneo dove Bernardini era in ritiro con la Sampdoria. Pozzo ormai aveva 83 anni. Era a un raduno di alpini. Volle andare a fare gli auguri al suo ex nemico e vi fu un abbraccio.

GLI SCUDETTI
Il vecchio «Guerino» a Genova gli fece un processo che finì in un trionfo.
E Gianni Brera, che fungeva da pubblico ministero, spiegò: «Bernardini fingeva di parteggiare a parole per i qualunquisti e poi li smentiva sul campo sia a Firenze sia a Bologna. La cosa mi sdegnava molto. Perché gli italiani hanno sempre bisogno del doppio binario e storicamente ne ho così nitida coscienza da soffrirne. Intanto, per quel vezzo, abbiamo perduto molti anni in chiacchiere e ancor oggi vi sono molti tabù mentali e critici nel nostro ambiente. Bernardini è intelligente e buono d'animo per cui mi piace molto di aver fatto pace con lui: se accettasse di insegnare anche quel che combina in sede pratica sarebbe la guida ideale del calcio italiano».
Alberto Rognoni ricordò che nel '43 la Mater di Bernardini fu la prima a giocare col sistema, poi, a Firenze con Julinho ala tattica, anticipò il modulo del Brasile. E col Bologna vinse lo scudetto gabbando Herrera nello spareggio con la trovata di un terzino, Capra, all'ala sinistra. Anticipò sempre i tempi e meritò quindi anche la carica di presidente degli allenatori, a quell'affettuoso processo del «Guerino» venne assolto da una giuria che aveva come presidente Enzo Tortora.
E il presentatore televisivo ricordò poi: «Mi chiamò vostro onore con un'ironia così sottile che gli ermellini, se li avessi avuti sulla toga, sarebbero arrossiti di vergogna. Annodandosi in un rosario di giuridica pelliccia, mai imputato fu più spiritoso e corrosivo. Perché tacerlo? Perfino come presidente tifavo per Fulvio Bernardini.
Bernardini è votato all'assoluzione come altri purtroppo sono costituzionalmente votati all'ergastolo».

LA PROFEZIA
A proporlo come Ct della Nazionale fu negli Anni 60 l'attuale ideatore del «Processo del lunedì». Aldo Biscardi scrisse su "Lo sport", la rivista che dirigeva: «La Nazionale, poiché è la massima espressione calcistica del paese, deve essere affidata agli uomini di maggior prestigio e non ad uomini di scarsa esperienza perché è difficile emergere all'università avendo frequentato solo le scuole serali. E insistiamo sulla candidatura di Fulvio Bernardini, un uomo e un tecnico di grandi inconfondibili virtù».
Antonio Ghirelli, allora direttore del "Corriere dello sport" aggiunse: «Anche noi siamo d'accordo su Fulvio alla Nazionale». E Aldo Bardelli sulla "Gazzetta dello sport": «Il settore azzurro ha bisogno di una radicale riorganizzazione ed anche di quadri più qualificati. Bernardini sarebbe stato il tecnico più qualificato per occupare una posizione di vertice in questo settore, ma ha già rinnovato il contratto con la Sampdoria. Non è da escludere del resto che quello che non è possibile oggi possa essere realizzato in un secondo tempo».
Bernardini si schermì dicendo: «Per anni ho sognato di diventare il selezionatore della squadra azzurra. Tutti gli allenatori del resto hanno avuto sicuramente l'occasione per sognare di arrivare un giorno alla conduzione della Nazionale. E umano che sia così. Io non ho fatto eccezione alla regola come non la faranno i giovani che sono alle loro prime apparizioni sulla panchina. Adesso però è un bel po' di tempo che ho smesso di sognare...».
Invece il sogno si avverò davvero. E il destino (Artemio Franchi) gli permise di ricostruire la Nazionale che doveva poi laurearsi campione del mondo.




Tre ricordi di tre giornalisti per ricordare ciò che è stato Fulvio Bernardini:
un grande giocatore, un grande allenatore, e soprattutto un grande uomo

Non aveva ruolo perché giocava in tutti i ruoli.
È stato forse il più grande cervello calcistico di tutti i tempi.
La vera storia del dissidio con Vittorio Pozzo e il primo sciopero nella Roma.
Da difensore, segnò alla Juve due gol capolavoro.
E fu subito mito.

di Gualtiero Zanetti

In questo momento triste, perché è dell'ultimo addio, si deve essere cattivi per quello che lui non riuscì ad essere. Fulvio Bernardini è l'autentico esempio di quanto la gente sappia dimenticare in fretta. Sono persino sicuro che qualcuno si deve essere detto: «Ma come, Bernardini è morto soltanto adesso?».
Eppure è stato il più grande uomo di calcio che mai sia esistito. È stato per anni dentro al calcio ricevendone il minimo per vivere, mai per diventare ricco. Ha visto il calcio da giocatore, da tecnico, da dirigente, da giornalista, l'hanno voluto alla Nazionale solo quando aveva già speso quasi tutto e per più di sessant'anni c'è stata una rincorsa affannosa per scovargli difetti: pigro, scontroso, scettico, troppo definitivo nei giudizi, antinordista.
Che fosse il più onesto e il più competente, non ha mai avuto importanza. Eppure abbandonò la Lazio (vi esordì portiere a 14 anni) quando apprese che a molti suoi compagni venivano allungati soldi sottobanco, né fu tanto pigro se seppe laurearsi quando studiare era compito abbastanza complicato non essendo ancora stati scoperti gli accorgimenti politico-sociali di oggi. Aveva il culto dell'amicizia (pochi e sempre gli stessi) pareva intenzionato a non prendere mai nulla sul serio, solo perché diceva le sue verità in un certo modo, senza drammatizzare, né urlare. Insomma è stato «er più». All'uscita dalla guerra fu anche dirigente federale: rappresentava il Centro-Sud nella trattativa per rimarginare le due anime del calcio e soltanto un uomo superiore come Ottorino Barassi ne comprese le idee e gli sfoghi. Per troppi dirigenti del Nord, fu vera normalità il giorno in cui se lo tolsero dai piedi.
Allora eravamo in tanti ad andare a trovarlo alla redazione del «Corriere dello Sport», nella sua stanza con Giuseppe Melillo e Vittorio Finizio. Fu li che divenne allenatore della Roma.
Per stare più insieme, costituì una squadra, lo Sparta, con giornalisti e qualche amico inseparabile (Celestini, Fasanelli, Chiesa, Battioni e pochi altri). Ebbe uno scontro con un arbitrino alle prime armi, che all'ingresso in campo gli aveva espresso untuosamente tutta la sua ammirazione. Durante il gioco, ci fu un banale incidente e l'arbitrino, montando in cattedra, gli disse: «Mi dia il suo nome». Rispose: «Lo sa». E l'altro: «Dovessi conoscere il nome di tutti i giocatori delle squadre che dirigo...». Non finì la frase perché Fulvio aveva già deciso il modo di interrompere la discussione. Fu espulso e gli andammo dietro.

SCIOPERO
In pochi sanno che proprio un campione del suo rigore morale fu il primo a organizzare uno sciopero dei giocatori. Il presidente romanista dell'epoca aveva promesso un premio in caso di vittoria, in tre partite consecutive, ma al momento di pagare disse che nel premio doveva essere compreso anche l'incontro di Venezia. Bernardini contestò che non era nei patti, l'altro rispose che il presidente era lui. Replica: «A Venezia non giocheremo». La partita di Venezia cominciò con molto ritardo, quindi il presidente riconobbe l'errore. Un altro che Bernardini non volle più incontrare. La sua vita non è stata costellata di grandi soddisfazioni perché dava alle sconfitte il valore del dramma. L'abbandono della direzione tecnica della Roma fu, appunto, un dramma che volle vivere da solo, e quasi per godersi da solo tutta la sua «vergogna», andò a Reggio Calabria. Si faceva fatica a dargli coraggio e allora era lui a darne agli altri.
Anche la sua uscita dalla Nazionale ha avuto molte interpretazioni. La stessa giustificazione che Vittorio Pozzo avrebbe fornito alla stampa («Lo debbo togliere perché è troppo bravo e rompe gli equilibri interni della squadra») non è completamente esatta. Stava preparandosi alla partita, quando il C.T. entrò nella sua stanza e gli comunicò la sua decisione che, in verità, era stata quasi imposta dal blocco dei nordisti che mal sopportavano la superiore capacità interpretativa di Fulvio, sicuro allenatore in campo. Bernardini non si scompose e replicò, con voce pacata, con una espressione tipicamente romana. Così come quando Fiorentina e Bologna, che aveva portato allo scudetto, preferirono altri tecnici.

UNIVERSALE
Definirlo quale giocatore, agli occhi di chi non lo ha visto giocare, è impossibile. Non aveva ruolo, ne ha ricoperti sette perché gli piaceva andare dove lo portava il suo estro.
Era un difensore per la maglia, ma disponeva di un ottimo tiro a rete: i due gol a Combi nel celebre Roma-Ju­ventus 5-0 furono un capolavoro. Era insofferente alle marcature, offensivista quando la partita lo ordinava, difensivista quando il risultato lo imponeva. Vinse lo spareggio con l'Inter nell'anno del doping, perché im­prevedibilmente schierò un terzino all'ala e i nerazzurri non ci capirono più niente. Oggi che si parla di «zona», si ignora che lui era la zona vera, nel senso che la praticava a seconda dell'evolversi del gioco, come deve sem­pre essere. Lo ritengo il più grande cervello calcistico di tutti i tempi, perché ha avuto contro pochi avversari del suo valore come giocatore e forse nessun allenatore delle sue capacità, prima umane, poi tecniche.
Chiese che i suoi ragazzi indossassero lo smoking e giocassero a bridge per via di una sottile opera di promozione individuale che avrebbe acceso l'amor proprio anche del più rozzo. Una volta, durante una partita dello Sparta, lo implorai: «Fulvio, tu stai fermo e mi lanci palloni troppo in avanti, non ce la faccio a rincorrerli». Mi rispose: «Ma se sai soltanto correre, e sei soltanto giovane, che debbo fare? Correre io, che ho più di quarantanni, e palleggiare con te, che sai appena correre?».
Alberto Marchesi ha scritto che Fulvio, ultimamente, scriveva quello che voleva dire, perché non riusciva più a parlare. Si è così spenta, in maniera disumana, la voce che ha predicato il calcio parlato più nobile che mai si sia avuto, il Pasquino della palla rotonda.
Aveva innato il desiderio, anche da anziano, di andare a «tirare due calci»: prima e dopo gli allenamenti, con qualche volenterosa riserva. Da giovane al Parco dei Daini, poteva stare sul Campetto anche sei ore al giorno. Il vero calcetto lo ha inventato lui, su terreni ristretti, al coperto, financo allo Sferisterio di Roma, durante la guerra, cinque contro cinque, con le tribune piene, con la gente che puntava. Roma lo chiamò Garibaldi, ma a Roma non ha potuto esercitarsi completamente quale tecnico. L'Italia ha avuto in lui il più grande studioso, ma non lo ha mai voluto realmente Commissario Tecnico. Ho letto che ne hanno parlato in termini commossi e riconoscenti anche coloro che avrebbero accettato di buon grado il suo silenzio anticipato.
Lo hanno voluto dimenticare in fretta approfittando del fatto che lui ha sempre preteso di farsi dimenticare. E oggi che in troppi hanno dalla loro parte un comodo alibi morale, possiamo vivere in pace. L'ultimo calcio davvero azzeccato di Fulvio è stato quello dato al mondo, un mondo che per lui non ha avuto un minimo di riconoscenza. Nessuna paura, Fulvio, il vero modo di vivere era il tuo.
Ci basta sapere che calcisticamente e tecnicamente non ha avuto figli, perché in tutto era irripetibile. Dome­nica scorsa il minuto di raccoglimento per le coscienze altrui è stato terribilmente lungo. Addio Fulvio. Aspettaci.




Tre ricordi di tre giornalisti per ricordare ciò che è stato Fulvio Bernardini:
un grande giocatore, un grande allenatore, e soprattutto un grande uomo.

Come da giornalista diventò Commissario Tecnico, a 68 anni: Franchi per imporlo
dovette vincere molte resistenze dell'ambiente.
La scelta di Bearzot, certe conferenze stampa spregiudicate e poi il ritiro a Bogliasco.

di Italo Cucci

A dispetto di una amicizia antica, vera, serena, di quelle che non pretendono nulla - dare e avere fra amici non contano - il bel rapporto che avevo con Fulvio Bernardini era rimasto fermo a tempo fa. L'ultima occasione di parlarci non era stata felice: una sua telefonata molto breve, quasi imbarazzata, per partecipare a un mio dolore. Amava troppo la vita, Fulvio, per affrontare temi che non la riguardassero; e gli piaceva anche tanto costruire - non improvvisare, come crede taluno - sicché quando si accorse di aver dato tutto al suo mondo, fra lui e tanti cadde il silenzio.
Da mesi aspettavo cattive notizie; la sua salute cui tanto teneva, il fisico che curava con una punta di narcisismo, la parola difficile eppur chiara, aperta, comprensibile: tutto stava andandosene e mi pareva doveroso non cercare di sapere dippiù, per restare fermo alle ultime memorie, alle ultime immagini di un uomo che ho amato come un padre ricevendone in cambio simpatia e un ripetuto rimprovero: «Peccato che tu non creda - mi diceva - alla lealtà totale del nostro mondo; spesso hai ragione, ma sapessi quanto dona allo spirito esser convinti che tutto intorno ci sia soltanto buona gente». Sapeva anche che non era vero, e conosceva bene chi non lo amava: ma se appena facevi un nome, lui alzava la mano e ne allontanava l'immagine, come fosse soltanto una mosca fastidiosa. Se poi doveva proprio sbatterci contro, alla cattiveria, allora gli veniva anche da piangere.

Lo ricordo così, con le lacrime agli occhi (come bene lo ha ricordato il suo grande amico Alberto Marchesi, tanto amico da comprenderne anche i silenzi) una mattina a Bogliasco, vicino alla sua dolce Ines (parlava tenendole la mano), quando fu chiaro che la sua breve parentesi azzurra era destinata a chiudersi.
Un pianto virile, solo gli occhi glaciali e trasparenti umidi di lacrime, come fosse uno sfogo di nostalgia e non un impatto con il dolore del momento. «Ora possono dirmi e farmi di tutto - confessava senza pudore - ma la Nazionale l'ho avuta, ci ho lavorato con entusiasmo, era lo scopo della mia vita, ho lanciato tanti giovani in gamba che mi vogliono bene. Quando decideranno di togliermela, gliela restituirò senza far storie. Fastidi non gliene ho dati e non gliene darò». Naturalmente qui sbagliava: era infatti convinto che, comportandosi da gentiluomo, avendo in grande rispetto l'onestà e la correttezza, non avrebbe mai dato fastidio. Era esattamente il contrario. Ma se glielo dicevo, ricominciava il ritornello: «Peccato che tu non creda alla lealtà...».

La Nazionale di Bernardini nacque per caso, anche se oggi, tutti ne parlano come di una scelta programmata, decisa da chissà quali vertici. Dopo l'amara estate di Stoccarda (Mondiali del '74) chiesi a Fulvio, che già da lungo tempo lavorava al mio giornale d'allora, «il Resto del Carlino» (l'avevamo «prestato anche alla «Gazzetta» di Zanetti per il commento al campionato) di fare un pezzo sul tema: come ricostruire la Nazionale dopo il crollo mondiale.
Prima si era schermito: «Lasciamo perdere, c'è chi provvede...»; poi, quand'era caduta la candidatura di Italo Allodi (per volontà del medesimo) e non si vedeva una soluzione attendibile, tornai alla carica: «Il pezzo te lo faccio - mi disse - ma non è nel contratto di collaborazione: voglio di più, voglio dire cose, proporre soluzioni, fare un programma di rinnovamento eppoi portarmelo avanti io, non regalarlo alla Federazione».
Detto così, potrebbe parere un mercanteggiamento, una pretesa non adeguata allo stile di Fulvio.
E invece era semplicemente la richiesta di un innamorato che alla panchina della Nazionale c'era arrivato vicinissimo più d'una volta, e non ci s'era mai seduto perché tanti, nel «Palazzo», non lo volevano. I sinceri dicevano ch'era «scomodo». I buffoni sottolineavano ch'era «rincoglionito».
Gli uni e gli altri non avevano mai posseduto tutta la sua generosità, la sua intelligenza, la sua classe, la sua conoscenza calcistica, la sua capacità di trattare del gioco del pallone non in forme meschine, banali, ma con cultura e - soprattutto - con straordinaria umanità.
Credo che nacque con lui - molto prima, naturalmente - il calcio dal volto umano: scaricato di tensioni campanilistiche, di certa, ignoranza tipica dei tanti che pensavano coi piedi piuttosto che con la testa, di umori maligni. Eppure era giornalista, e bravo anche. Ma romantico: ecco la sua colpa.

Fu Franchi che trovò una risposta acconcia alle sue richieste; quando ne parlai all'indimenticabile «granduca di Toscana», (una telefonata brevissima al suo ufficio di Badia a Settimo) rispose subito: «Ci ho già pensato, è l'uomo giusto, dovremo solo farlo digerire a qualcuno...».
E infatti la digestione fu difficile per i tanti che non volevano fra i piedi lo «scomodo rincoglionito» (ch'era peraltro discretissimo e lucido, magari anche un po' malignamente divertito del fastidio che dava a stupidi e a potenti insieme). Se Rivera e Mazzola, subito tagliati fuori dalla Nazionale di Bernardini («E una dolorosa necessità», diceva), lealmente si tiravano in disparte senza polemizzare, solo mugugnando, quelli che non ne avevano mai amato lo stile assolutamente superiore presero subito a fargli guerra.
Molti giornalisti per primi, soprattutto quelli che si trovavano a disagio nelle sue conferenza stampa che nulla lasciavano all'invenzione: era talmente chiaro, e diceva cose così felicemente intelligenti, e in un italiano tanto facile - Fulvio - che praticamente scrivevi sotto dettatura (solo un altro grande personaggio dello sport e della vita è stato sempre così, e si chiama Enzo Ferrari).
Talvolta buttava là anche idee strampalate, ma perché amava il paradosso, giocava con la propria intelligenza e con quella degli interlocutori: un gioco che non sempre lo divertì, che raramente era compreso. Come quella volta che, accusandolo di aver convocato oltre un centinaio di giocatori, aggiunse alla lista un altro nome, un ragazzo figlio d'un suo amico livornese. Apriti cielo.
E il centromediano metodista? Apriti cielo. E i «piedi buoni»? Apriti cielo. Solo una volta sbottò di brutto: e rivolse a certe penne pesanti accuse che non si rimangiò.
Poi tornò cheto, prima a divertirsi, poi a soffrire. Quando esordì sulla panchina azzurra, il 28 settembre del 1974, a Zagabria, amichevole contro la Jugoslavia (a proposito, il gol della vittoria jugoslava lo segnò Surjak, quello dell'Udinese) prese freddo e stette male di stomaco: fu dunque una partenza da «vecchio» che gli procurò battute meschine e risolini sfottenti; ma andò avanti per la sua strada, prima impassibile, poi sempre più chiuso in se stesso, fino a che non trovò in Bearzot l'amico che cercava. Io non volevo crederci e sul «Guerino» - in quei giorni - attaccavo Enzo perché non mi pareva leale nei confronti del «grande vecchio».
E Fulvio tornò a dirmelo: «Potrai avere ragione in tanti casi, in questo no; Bearzot è leale, è l'uomo giusto». E quando organizzammo un divertente «Processo a Bernardini» durante una crociera nei mari di Grecia, Fulvio precisò: «Presto Bearzot saprà camminare da solo, e andrà benissimo». Fu profeta, co­me sempre. Una sola cosa non aveva previsto: che Bearzot avrebbe patito le sue stesse pene, ripagate peraltro da ben diverse soddisfazioni.

Ricordo Fulvio vivo perché non riesco a immaginarmelo morto. Ignoro i suoi ultimi addolorati giorni perché preferisco rivivere solo i suoi trionfi e riascoltare la sua voce suadente, le sue parole mai sciocche, e risentire la sua mano forte e grande che spesso si lasciava andare a una scoppola paterna, a un buffetto amichevole, a una carezza quasi segreta. La sua mano che quel giorno, a Bogliasco, stringeva quella di Ines: «Quando mi toglieranno la Nazionale - le disse, guardandola con un sorriso pieno di tenera complicità - non sarà un dramma. Resteremo noi a volerci bene, vero Ines?».


Fulvio Bernardini in trionfo a Roma appena vinto lo scudetto contro l'Inter





Grazie FULVIO

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